IAIP – Internacional Association of Individual Psychology

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Egidio Ernesto Marasco Via Santa Maria Valle, 7 20123 Milano

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Summary

There are moments in history when different ideologies seem to meet and entwine like threads in a fabric. Each person believes that only his theories can solve the problems in the world and so man sets about using any means, even violence, to put these ideologies into practice in the name of progresso. Along with these ideas, however, the people who support them also gain power. This is why even the noblest religions or humanitarian organizations can be exploited by men who believe in them and are even wilIing to fight for them. Alfred Adler lived in one of these historical moments, but similar circumstances had already occured in the past and wilI inevitably be repeated again. And so it was, therefore, within this historical/sociological framework that the Psychology of the IndividuaI took on an enormous importance in society. Its great scientific value comes from its knowledge of man but also from the fact that it is apart from any form of ideology. This was experienced by Adler in Vienna after the fall of the Hasburg Empire, with the Horvat group in Trieste before the Second World War and with Parenti in Milan in the 1970s. The finding of Parenti’s tapes of his lessons from the period has enabled us to see how it alI carne about and also draw some conclusions. Today walIs, legends and ideologies have been destroyed yet there are stilI many practicing teachers, doctors and psychologists whose positions in society were based on those ideologies. These men could leave behind them an emptiness, a ‘weltalnschauung’ inspired only by a short-sighted and sterile sense of neopositivistic, technological efficiency which is still, however, capable of oppressing with its power. For this reason there is a need, now more than ever, that the bright star of a theory on man stilI shines; and that it shines for man and man alone in order to bring back a certain dignity and ability to form creative projects: it is not truth that makes man great but man who makes truth great.

Introduzione

Ci sono momenti della storia in cui varie ideologie si incontrano come si uniscono in nodi più fili nella trama di un tessuto. A ognuno sembra che le proprie teorie possano risolvere ogni problema e, allora, si adopera anche la violenza per permettere il progresso della società dando potere a tali ideologie. Insieme alle idee, però, acquisiscono potere anche le persone che ad esse si ispirano. Per questo anche le più nobili religioni e organizzazioni umanitarie possono essere strumentalizzate dagli uomini che ad esse si ispirano e per esse militano. Alfred Adler è vissuto in uno di – questi momenti critici della storia, ma situazioni analoghe si erano già più volte presentate e si sono poi ancora ripetute. Proprio in queste cornici la Psicologia Individuale, con il suo grande valore scientifico che le permette una buona conoscenza dell’ uomo, ma anche l’assoluta indipendenza da ogni ideologia, assume enorme importanza per la sua incidenza sulla società. Ciò è avvenuto con Adler, a Vienna, dopo il rovinoso crollo dell’impero asburgico, con il gruppo della Horvat, a Trieste, prima della seconda guerra mondiale e con Parenti, a Milano, negli anni 70. L’aver ritrovato le registrazioni delle lezioni di Parenti di quegli anni consente di vedere direttamente come ciò si è concretizzato e obbliga ad altre considerazioni: oggi muri, miti e ideologie sono crollati, ma operano ancora professionisti: insegnanti, medici, psicologi che hanno fondato su tali ideologie la loro presenza nella società. Dopo di loro potrebbe restare il vuoto assoluto di una weltalnschauung ispirata solo ad un miope e sterile efficientismo tecnologico neopositivistico, ma comunque in grado di opprimere col suo potere. Per questo è necessario ora, più che mai, che continui a brillare la stella polare di una teoria dell’ uomo che all’ uomo, per se stesso, ridoni dignità e capacità di creativi progetti: non è la verità che fa grande l’uomo, ma l’uomo che fa grande la verità.

Crisi della società, crisi della scuola e delusione postconciliare dei laici

Mai come negli anni sessanta i problemi della scuola hanno inciso su tutta la vita della società italiana: il primo governo Moro cadde per la legge che prevedeva il finanziamento alle scuole private, che spiaceva ai laici e, nel 1966, il secondo governo Moro fu abbattuto dai franchi tiratori democristiani che non volevano l’istituzione della scuola materna pubblica. E questo della confessionalità o laicità dell’istruzione era solo il più piccolo dei problemi della scuola. I suoi grandi problemi erano infatti il diritto allo studio per fasce sempre più ampie della popolazione e, collegata ad esso, la riforma dell’ordinamento scolastico. Tutto ciò avrebbe potuto essere affrontato con il buon senso e l’attenzione per i problemi di tutti del buon pater familias, ma i rigurgiti di una retorica populistica ottocentesca, rinvigoriti dalla contestazione giovanile, portarono, da un lato, ad operare comunque delle riforme e, dall’ altro, ad un ampio dibattito da parte di studenti e docenti nell’ ambito della scuola. Proprio questa scuola in crisi, però, si apre ad un numero incredibile di ragazzi abolendo ogni selettiva prova all’uscita e all’ingresso di ogni ordine di scuole: l’ esame di maturità diviene per nulla selettivo e, per giunta, ogni facoltà universitaria è di libero accesso per qualsiasi diplomato: l’università che nel 1956-1957 aveva 212 mila iscritti nel 1966-1967 ne avrà 425 mila. Queste oggettive difficoltà, nate dall’enorme espansione dell’ utenza scolastica in una scuola che, per far fronte a queste nuove esigenze, avrebbe dovuto prima riformarsi, furono particolarmente dibattute in due università le cui realtà, per diversi motivi, si prestarono in modo fino ad allora inimmaginabile a favorire il dibattito sui problemi della scuola e di tutta la società. La lunga gestazione del Concilio Vaticano secondo aveva ormai partorito il suo topolino. L’abolizione del latino, l’introduzione nella messa di musiche etniche e il vis a vis di sacerdote e fedeli nella celebrazione della messa avevano fatto alzare grida di scandalo, ma il Concilio, in sostanza, non aveva introdotto le attese riforme: donne e laici rimanevano fuori dalle strutture ecclesiastiche e ciò aveva profondamente deluso le aspettative di compartecipazione all’attività della Chiesa specie di quella massa di studenti che dagli oratori della Brianza e di tutta Italia erano venuti a studiare all’ Università cattolica perché improntato da cattolicesimo doveva essere anche l’apprerndimento della scienza se non la scienza stessa (Gemelli 1914, 1921). Questo desiderio inappagato di partecipazione, essendo impossibile una contestazione nella Chiesa già contrariata dai rigurgiti reazionari, fece migrare dalle sacrestie alle aule, ai collegi universitari e a quei cortili riservati alle studentesse in grembiule nero detti “chiostri delle vergini”, dalle celebrazioni religiose e dai consigli pastorali alle lezioni universitarie ed alle associazioni studentesche i laici delusi e tutto il loro desiderio di divenire protagonisti della realtà in cui vivevano. Dal 1948 il DPR n° 168 prevedeva che nel Consiglio di Amministrazione delle Università facessero parte tre studenti eletti dall’organismo rappresentativo locale ma, di fatto, tali Organismi rappresentativi Studenteschi non esistevano. Così il problema dell’aumento vertiginoso delle tasse (per finanziare la crescita della Cattolica) e il connesso problema del diritto alle borse di studio per i meritevoli bisognosi vennero portati nell’assemblea generale degli studenti tenutasi il 27 ottobre 1968 nell’aula Gemelli. A questa seguì la prima occupazione dell’Università a cui, nonostante le repressioni dell’Autorità accademica, ne seguirono altre. Obiettivo di queste lotte restò il diritto allo studio per tutti: sembrava assurdo che solo il 38 per mille degli iscritti alle elementari arrivasse alla laurea. Ben presto il dibattito si allargò alla didattica universitaria con il contributo degli assistenti e dei professori incaricati mentre i professori ordinari difendevano i privilegi delle loro cattedre intesi quasi come titoli nobiliari e svincolati da un effettivo lavoro di docenza: la legge che prevedeva il tempo pieno per loro (=52 ore di insegnamento all’anno!) venne, da loro, fatta bocciare. Ben presto si crearono collegamenti tra Movimenti studenteschi delle quattro università milanesi ma, in Cattolica almeno, la contestazione mantenne una certa propositività anticipando ad esempio i concetti dell’autonomia e dell’autogoverno universitario che prevedevano corrispondenza tra responsabilità scientifico-didattiche e responsabilità decisionali.

Su tutti questi temi aprirà il dibattito il ciclo di lezioni di Francesco

Gli anni di Caino

La contestazione giovanile del 1968, nata da focolai isolati: a Berkeley, a Parigi, in Gerrmania, ben presto infiammò tutto il mondo. Caratterizzò alcune formulazioni di pensiero, come quella de l’uomo a una dimensione di Marcuse. Si tradusse nella rivolta politica della primavera di Praga duramente repressa dall’ intervento armato sovietico. Le sue anticipazioni in Italia si erano viste sul giornalino studentesco La zanzara del liceo Parini di Milano: “Vogliamo che ognuno sia libero di fare ciò che vuole a patto che ciò non leda la libertà altrui. Per cui assoluta libertà sessuale e modifica totale della mentalità” (Montanelli-Cervi, p. 62) e crearono un caso giudiziario paternamente smontato dal magistrato Luigi Bianchi d’Espinosa che assolse i redattori del giornalino inquisiti raccomandando loro: “Non montatevi la testa. Tornate al vostro liceo e cercate di dimenticare questa esperienza senza atteggiarvi a persone più importanti di quello che siete” (Ibid., p. 63). Nonostante la levità di questo esordio la contestazione giovanile ebbe poi caratteristiche particolari in Italia perché durò per un decennio ed assunse la drammaticità di una violenza sempre più accentuata. Ben diverso dal velleitarismo ecumenico delle assemblee studentesche della Cattolica era, infatti, lo spirito che informava la protesta dell’Università appena costituita nella città che ha dato il nome ad un altro Concilio, quello della controriforma. L’università di Trento nasce come Istituto Provinciale di Scienze Sociali, in tempi in cui si guardava all’America di Kennedy, con l’ intento di formare non assitenti sociali ma tecnici sociali, tecnocrati managers capaci di rivitalizzare e rifondare La vogliono il presidente della provincia di Trento il moroteo Bruno Kessler, padre Rosa e Alberto Trabucchi. Direttore è il matematico democristiano Mario Volpato e presidente ne è Marcello Boldrini accademico pontificio e presidente dell’ENI. Nel consiglio provinciale il PCI è contrario a tale istituzione. Studenti e docenti provengono da tutta Italia. Nel 1969 lascia la Cattolica e il cattolicesimo per venire a Trento il professor Alberoni (il barone rosa). Sempre dalla cattolica viene lo studente Curcio. Tra gli studenti, ma non solo tra loro, le chiavi di lettura dei problemi della società sono quella marxista e quella del pensiero della scuola di Francoforte, per cui anche la psicoanalisi trova un’incredibilmente felice accoglienza, dopo la quarantena imposta dal fascismo e dal pensiero cattolico, proprio per le connessioni che sembravano potersi stabilire fra marxismo e psicoanalisi. A Trento tutti infatti sentono un gran bisogno di analisi, come premessa a un cambiamento personale prima e sociale dopo. Questi studenti, secondo Fornari, portano al collo le catene, simbolo di un’avvenuta rottura con i genitori, e qui stanno costituendo una nuova grande famiglia. I duri e puri della contestazione, che non nascondevano di identificarsi nei modelli a cui si ispiravano, non pensavano che Freud fosse ancora diventato un grande padre come Marx, tuttavia ciò non impedì che un gruppo di studenti si impegnasse nel seminario autogestito “Psicoanalisi e società repressiva”. “Per non perdersi nei tortuosi meandri del profondo” (Ricci, p. 111) questi ragazzi vollero che l’analisi di gruppo fosse condotta da un analista. La defezione del famoso psicoanalista bolognese portò il giovane milanese Facchinelli, anche se ancora in formazione, a “cercare d’intendere, nelle sue vicissitudini e nelle sue trasformazioni, che non sono certo inconoscibili, quella “passione”(Leidenschaft), che è nello stesso tempo urgente “bisogno” (Not) di autorealizzarsi da parte dell’uomo di cui parlava Marx; quella esigenza “radicale” che fa dire a Bloch, in modo duplicemente ironico, che non si vive di solo pane soprattutto quando non se ne ha. Non si fa dunque cieca e irrazionale apologia, quando se ne costata la presenza, quando se ne seguono le vicende nel rivoluzionario e nel settario; semplicemente si approfondisce l’analisi a quel livello in cui l’uno e l’altro riescono forse a ritrovare, come in uno specchio, i tratti della loro straordinaria somiglianza e diversità” (Facchinelli, p. 137). I comportamenti che si ispirano a ideologie finiscono per naufragare nel non luogo dell’utopia e questi ragazzi, infatti, avevano bisogno di ricaricarsi con “polveri artificiali” prima e durante il dibattito ( Ricci, p. 111) mentre l’indiscusso primato dell’uomo e l’attenzione centrata sulla persona di veri interventi psicoanalitici avrebbero favorito, con una vera crescita personale, il concretizzarsi di tutti gli ideali meglio definendoli anche nelle loro componenti emotive. La psicoanalisi, come ricorda Fornari (Ricci, I giovani non sono piante), era entrata a Trento anche a livello accademico. L’insegnamento di psicologia dinamica, in verità, era solamente l’etichetta per impedire agli psicoanalisti di insegnare perché c’era una sorta di accordo segreto, una sorta di giuramento fatto da Musatti, psicologo sperimentale e psicoanalista, per il quale i suoi allievi psicoanalisti si sarebbero accontentati dei redditi della professione, mentre i suoi allievi sperimentalisti, che non guadagnavano un centesimo, avrebbero avuto la garanzia della carriera universitaria.

Il neoumanesimo degli psicoanalisti

Fornari, che a Trento insegnava psicologia generale e psicodinamica, osservava che la riforma della società, discussa nelle aule e nelle assemblee, faceva trasparire l’urgenza che i ragazzi avevano di portare il discorso sul piano personale, c’erano più problemi personali che sociali e talora erano così drammatici da costringere “papà” Fornari ad occuparsene, ma era impossibile occuparsi dei duemilacinquecento studenti a livello interpersonale. Bruciante può essere definita questa esperienza trentina di Fornari anche perché, al rifiuto opposto a un gruppo che voleva il trenta senza dare l’ esame, era stata buttata benzina su pavimento dell’aula e qualcuno aveva anche acceso un fiammifero. Fornari, così, venne via da Trento nel 70, rinunciando a quell’ascolto idealizzante, ipnotico di tutti questi ragazzi. Lo allontanò da Trento il teppismo, ma anche la per lui impossibile e non convincente contrapposizione tre cattolicesimo e marxismo. Egli, uomo decisamente di sinistra, era abituato a discutere con i suoi familiari democristiani con cui poi l’accordo si trovava, se non altro nella comune passione per la musica e nella condivisione degli altri piaceri dati dal grana piacentino, dal trebbiano e dal culatello, Fornari proveniva, infatti, da una famiglia di agricoltori piacentini ed era il minore di dodici fratelli di cui ne erano rimasti in vita dieci. “La mia storia infantile -dice infatti Fornari- mi ha sempre spinto in un’altra direzione. Ora le racconto l’episodio infantile che ha deciso della mia vita. Eravamo quattro fratelli, tutti in una stanza dove spesso avvenivano litigi – la mia era una famiglia di piccoli coltivatori diretti – e quando i fratelli litigavano io andavo da basso da mamma con i pantaloni in mano. “Di sopra litigano” dicevo. Il non litigare permetteva di stare con mamma. Quindi una situazione che non era quella del conflitto per avere la madre, quindi non quella del lottare, dell’ammazzare ecc. “Voi litigate e io sto con la mamma!” Per cui quando è scoppiata la situazione atomica alla fine della guerra mondiale deve esserci stata una mia realizzazione: se quelli che litigano ormai non possono più litigare allora è la volta buona, quello che era stato il mio mito personale infantile poteva diventare storia. Questo mi ha sempre impedito di scegliere una bandiera. Se vuoi stare con la madre, non litigare, non attaccare, non distruggere ecc. Concetto che ho finito per portare al congresso internazionale di psicoanalisi. Cioè il mio interesse per la psicoanalisi del sociale inizia da lontano e inizia proprio sul problema della conflittualità con il carteggio Freud-Einstein sul perché la guerra eccetera, eccetera ” ( Ricci, A., p. 190) Nonostante queste posizioni sui possibili compromessi i troppo ambiziosi progetti di riforma sociale, come ogni utopia, fecero perdere di vista la società che avrebbe dovuto essere risanata da questi interventi tecnici ma che, invece, divenne un odiato sistema da distruggere una volta che la bonaria goliardia da refettorio parrocchiale si fu trasformata in rivoluzione e terrorismo. Ma questo divenne ben presto uno scenario comune a tutta Italia. Uno dei più importanti scenari di questa guerra fu proprio Milano. Dapprima si sparava per ferire, per dare punizioni esemplari, ma poi si sparò per uccidere, per giustiziare rappresentanti dello Stato e chi era reo di militare nell’avverso schieramento. Gli artefici di questi atti di violenza intimidatoria e gli esecutori materiali di queste esecuzioni capitali non erano isolati, ma incitati ed applauditi dalle assemblee che si tenevano nelle fabbriche, nelle scuole medie e superiori e nelle università. I terroristi trovavano coperture in questi ambienti e la violenza giustificazioni ideologiche a volte proclamate in manifesti firmati da rappresentativi esponenti della cultura italiana. Non vogliamo assolutamente entrare nel merito di queste vicende storiche, ma è doveroso sottolineare come fosse un’azione di grande coraggio andare a presentare, ma anche andare ad ascoltare, l’analisi del violento estremista Mario passando da quelle strade ancora insanguinate e riecheggianti di spari dove si agiva materialmente quella violenza di cui si cercavano le motivazioni inconsce perché queste interpretazioni potevano essere intese come una repressione e la forza della ragione essere confusa con le forze dell’ ordine. Anche negli ambienti accademici i cultori della psicologia erano per lo più nettamente schierati su precise posizioni ideologiche così, oltre che di eccezionale coraggio, risulta di incredibile professionalità la trattazione di questi temi di Francesco Parenti che, senza neppure nominare la fazione politica di Mario, riesce comunque a tracciare asetticamente il parallelo del cammino dal disagio psicologico al benessere mentale con quello che ha portato il picchiatore Mario ad un inserimento attivo, utile e soddisfacente nella società in cui vive. Francesco Parenti operava in una realtà professionale e sociale diversa da quella trentina dove aveva lavorato, come uno dei tanti professori ferroviari un giorno alla settimana, il venerdì, Fornari, ma ha ispirato i suoi interventi psicologici al fondamentale principi della centralità del paziente, dell’uomo. Parenti proveniva da ambienti e formazioni completamente diverse da quelle di Fornari. Era figli di un agiato signore di Sesto Fiorentino che aveva sposato la figlia di un magistrato piacentino, conosciuta in Congo belga, più giovane di lui di diciassette anni. Ecco un suo ricordo infantile: “Ho tre anni. Siamo in vacanza in Valle d’Aosta. Vedo i valligiani portare ogni cosa sulla schiena con enormi gerle. Ne voglio assolutamente una anche io e non do tregua ai miei genitori fino a che non ne fanno fare una adatta per me!”. Non vogliamo qui confrontare le teorie fornariane al pensiero individualpsicologico che ispirava Francesco Parenti, anche se molto più vicini di quanto non lasci intendere la mancata scomunica di Fornari da parte del movimento psicoanalitico ortodosso, visto che lo spettro della morte, estromesso dalla diade madre-bambino e di cui si fanno carico il padre prima e le guerre poi, sono un deja vu per chi conosce l’ aggressività nella vita e nelle nevrosi e psicologia del bolscevismo, come il codice fraterno, la commensalità della nostra famiglia interna, richiama molto da vicino il nostro sentimento sociale. Qui ci vogliamo soffermare su un altro aspetto: la comune ispirazione psicodinamica ed una sempre riaffermato pragmatico asservimento delle teorie alla pratica clinica ha in fondo portato anche Fornari a concordare nei fatti con Parenti sul primato dell’uomo su ogni teoria che lo riguarda, tanto che Gaburri, ricordando Fornari lo definisce l’uomo dal volto psicoanalitico. Alla luce di questo fondamentale principio il diverso percorso teorico diviene di secondaria importanza pur servendo a far capire le diverse personalità, i diversi stili di vita e a dare e ricevere significato anche ai primi ricordi dei diversi autori che abbiamo voluto presentare, anche se isolati e decontestualizzati da un’analisi, non vivacizzare l’ esposizione con un semplice e vivace quadro naif, ma per meglio capire le teorie e, soprattutto – e ciò ci sembra importante in un mondo in cui teorie e ideologie crollano, ma solo per essere divorate dalla super teoria dell’apparato scientifico tecnologico che era stato al servizio di ogni ideologia e si era rilevato insostituibile tanto da darsi lo scopo di incrementare al massimo la capacità di creare scopi (Sanseverino)- per riaffermare la centralità dell’uomo che va sempre tenuta presente anche per capire meglio chi dell’uomo ha fatto oggetto del suo lavoro e dei suoi studi. C’è comunque un pericolo da evitare: quello di elevare la psicoanalisi a ideologia, a mito perché, come tutte le ideologie, non sarebbe al servizio dell’ uomo ma si servirebbe dell’uomo.

Bibliografia

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