IAIP – Internacional Association of Individual Psychology

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23th Congress of the International Association of Individual Psychology
L’INCORAGGIAMENTO COME STRATEGIA TERAPEUTICA IN UN CASO DI INCESTO
Gabriella Imperiale Psicologa Scuola S.A.I.G.A. Torino – Italia e-mail: [email protected] Il tema di questo congresso mi ha portato a pensare che il potere, in ogni cultura e in ogni tempo, è sempre stato nella mani di coloro che sanno, che conoscono. E’ la conoscenza, intesa nel senso più generale del termine e nei campi più diversi che permette da sempre di esercitare una qualsiasi forma di potere. La conoscenza certo non basta, per lo meno non sempre, a garantire il migliore utilizzo delle informazioni: la semplice conoscenza non garantisce sempre una buona “governans”. Promuovere la conoscenza, la conoscenza di sé, è quello che quotidianamente cerchiamo di fare con i nostri pazienti quando ci impegniamo a smascherarne le finzioni, analizzarne lo stile di vita, riorganizzarne le mete in funzione di un accresciuto sentimento sociale. E’ in questi termini che, a mio avviso, “potere” diventa sinonimo di “poter fare”, di “poter fare insieme a qualcuno”. E’ dunque la conoscenza di sé stessi, anche se ottenuta attraverso percorsi spesso dolorosi, ciò che può restituire “potere” a chi ne è stato sprovvisto per molto tempo. Mi propongo oggi di sottolineare come la tecnica adleriana dell’incoraggiamento permetta al paziente di passare dal potere inteso come potenza o prestigio personale al potere inteso come possibilità di riprogettarsi. Nello specifico viene presentato il caso di F.: giovane tossicodipendente attualmente in una comunità di recupero. I fondamentali presupposti di cui mi sono avvalsa avvicinandomi al caso sono state da un lato l’affermazione di A. Adler nel “Il senso della vita” che recita :”possiamo infondere coraggio perché partiamo da una psicologia dell’uso e non del possesso…nella vita infatti si è inclini a trarre tutte le conseguenze non dal possesso ma dall’uso di ciò che si possiede”, dall’altro l’indicazione di Rovera quando afferma (in “Transmotivazione, proposta per una strategia dell’incoraggiamento”) “è coraggioso chi agisce senza mete fittizie, chi non perde troppo tempo a recriminare, a compiangersi, a sviluppare comportamenti diretti ad ottenere la compassione altrui; e ancora che il campo d’azione dell’uomo coraggioso è quello sociale, dove azioni e motivazioni si confrontano” quindi “incoraggiare un soggetto che presenti una crisi situazionale o di crescenza, può ben essere rapportato ad un procedimento che miri a restituire al soggetto la fiducia in se stesso e nelle sue possibilità, il senso di appartenenza, le premesse per un mutamento di qualità della sua vita”. In quest’ottica il coraggio diventa espressione del sentimento sociale differenziandosi dalle “ipercompensazioni” del sentimento di inferiorità e dalla “condotta coraggiosa” di colui che deve fronteggiare un determinato pericolo. Partendo da questa griglia di riferimento il caso trattato si presenta come un caso di grave scoraggiamento. Paradossalmente il paziente di cui stiamo per parlare si sente estremamente potente nella sua eroica condotta tossicomanica. F., così lo chiameremo, è un poliassuntore, arriva in comunità dopo altri tentativi di disintossicazione in altre strutture e varie esperienze carcerarie nonostante la giovane età. I primi mesi di osservazione aiutano a capire chi è il ragazzo spavaldo che si ha di fronte: F. ha un intelligenza viva, la battuta sempre pronta e la sua ironia pungente è spesso lo strumento che usa per dare sfogo alla sua aggressività che, altre volte, viene espressa con modi meno sofisticati. L’aggressività è lo strumento principe che F. utilizza per avere la meglio sugli altri ospiti, per esercitare il controllo sulle situazioni e non sentirsi troppo minacciato. Secondo la “cultura della strada” il rispetto altrui si conquista attraverso una sorta di strategia del terrore nella quale F. sembra essere un esperto. F. sembra a disagio in un gruppo che propone modelli comportamentali e valoriali diversi dai suoi. Dopo qualche tempo, F. sembra completamente fuori posto e il confronto “involontario” con il gruppo lo porta alla crisi. F. dice “anche gli altri sbagliano, ma sanno che stanno sbagliando, quando io faccio qualcosa non so mai se è giusta o no, mi vergogno a dire che non so più cosa e buono e cosa no, questo non succedeva quando ero per strada”. La prima preoccupazione che F. porta nelle sedute è la sua paura di essere diverso dagli altri, una diversità che lo fa sentire come lui stesso dice “inferiore, più problematico”. Il rapporto tra F. e il terapeuta intanto comincia a crearsi con frasi di F. lasciate a metà, tra cose dette e altre taciute che chiedono sempre di essere chiarite. Emerge inoltre chiaramente che F. cerca un rapporto esclusivo con me, mette tutti i giorni alla prova la mia “tenuta” e “controlla” che non mi dimentichi di lui attraverso la scadenza di una serie di incombenze medico- legali, F. si assicura che io sia all’altezza del compito. Il lavoro con F. procede molto lentamente. Dopo un primo momento di aperta sfida verso la comunità e tutto quello che rappresenta, F. cambia registro, si sforza di cominciare a fare le cose per bene è più collaborativo e soprattutto esiste ora realmente una motivazione al cambiamento. In questa fase F. diventa estremamente sensibile alle critiche, pretende che gli vengano riconosciuti tutti i suoi successi ma non accetta che gli vengano fatti notare errori o atteggiamenti scorretti che ancora utilizza. E’ in questo momento che provo a restituire a F. che nonostante stia facendo grandi sforzi in comunità per ottenere dei cambiamenti, certo quelli che sono stati i suoi trascorsi, i suoi codici i suoi atteggiamenti continuano a ripresentarsi poiché in qualche modo fanno parte di lui. Noi sappiamo che infatti questo è il suo stile di vita. Questa occasione permette di restituire a F., in un momento in cui sento di poter osare, un’ immagine integrata, completa, fatta sia delle sue parti buone che faticosamente F. sta cercando di recuperare o di costruire, sia di quelle cattive che sta sforzandosi a tratti di nascondere a tratti di sostituire con qualcosa di più adeguato e condiviso. Entrambe le parti appartengono ad F. ed entrambe le parti vengono accolte dal terapeuta. Come terapeuta mi riprometto di far sperimentare al paziente che può essere accettato per quello che è, per ciò che è stato e per ciò che vorrebbe e potrebbe diventare. Nei giorni successivi al colloquio F. regredisce visibilmente, non si alza al mattino, insulta volutamente gli altri ospiti, afferma che la comunità non è posto per lui: gli educatori sono costretti ad intervenire dal punto di vista educativo con delle limitazioni rispetto a dei piccoli “vantaggi” conquistati da F. in quei mesi di comunità (niente tv la sera, pulizia solitaria dei locali comuni ecc…) In seduta dice di aver pensato molto a quello che ci siamo detti, mi spiega che per lui è stato umiliante sentirsi smascherato, che si è vergognato molto e ha anche avuto una fortissima voglia di bucarsi. In tutto ciò sento anche una strisciante forma di ricatto o di avvertimento: le parole che F. non dice potrebbero suonare più o meno in questo modo: “occhio a non spingerti troppo oltre perché potrei annullare tutti i tuoi sforzi”. Mi chiedo cosa possa essere “il troppo oltre” che sento di non dover oltrepassare. So che F. ha ancora troppa paura del cambiamento, paura dello “svelamento”, paura di affidarsi ed è ancora molto tentato dalla possibilità di sentirsi meno inadeguato se pur in una dimensione patologica. Il lavoro procede da un lato con la necessità di F. di avere qualcuno che in qualche modo funzioni come uno specchio che rifletta la sua immagine in modo nitido, affinché lui la possa vedere chiaramente davvero, dall’altra con gli sforzi dello stesso F. di tenersi tutto quello che lui per primo non ama di se. Molte sedute sono caratterizzate da lunghissimi silenzi, silenzi pesanti accompagnati da sguardi indagatori di F. verso il terapeuta. Decido di interpretare quei silenzi: la mia impressione è che siano l’espressione di “segreti taciuti da sempre” e che ancora oggi pretendono di rimanere nel regno del non detto. F. esplode in un pianto imbarazzante che immobilizza, è un pianto che frena qualsiasi pensiero e azione è come se tra me e lui si fosse aperto un baratro che diventa ogni istante più profondo, F. sembra un bambino spaventato: resto ferma nell’attesa di non so bene cosa, poi F. comincia a parlare tra i singhiozzi, si nasconde il viso e racconta delle molestie sessuali della madre nei suoi confronti subito dopo la morte del marito, molestie dapprima subite che si sono trasformate poi in una vera e propria relazione perversa: l’unica relazione che gli permette di sentire la mamma vicina (F. aveva 8 anni), F. racconta anche della successiva relazione incestuosa con la sorella più grande di lui di pochi anni. E’ la prima volta in vita sua che parla dell’accaduto. F. racconterà e rivivrà nelle sedute la relazione a tre giocata ora all’insaputa della madre ora all’insaputa della sorella. F. porta in seduta quelle che sono state le fantasie sessuali dalla sua adolescenza in avanti e confessa “ho cercato di andare a letto con tutte le mie zie, ci provavo spudoratamente, mi faccio schifo, mi sento un perverso”, il tutto è intervallato da lunghi silenzi pieni di angoscia, di amarezza, da sguardi che chiedono e indagano quanto ancora oltre può spingersi, che indagano quanto il terapeuta è ancora in grado di sopportare. Appare ora più chiara quella sensazione di F. di sentirsi diverso, ci si spiega perché le relazioni di F. nella comunità sono tutte estremamente seduttive, F. non riesce a tenere una distanza adeguata tra sè e gli altri: o è troppo lontano o è troppo vicino. Capisco anche la sua necessità di essere, come dice lui stesso “riconosciuto”, di ricoprire finalmente un ruolo che non sia ambiguo. E’ proprio nell’ambiguità che F.ha vissuto il ruolo di figlio e di fratello. Per quanto ha rivelato F. si sente sporco, ha una forte paura del giudizio, ha una forte paura che per questo suo passato non potrà mai essere accettato totalmente da qualcuno. Le sedute diventano molto faticose, F. nei colloqui che seguono riduce molto le distanze, diventa eccessivamente adulatorio. La lettura adleriana del caso mi suggerisce di capire che con quel fare seduttivo F. non cerca una relazione sessuale con la terapeuta: sta chiedendo quella tenerezza primaria e quell’accoglimento che sono mancati nella sua storia di bimbo deprivato ed abusato. L’unico modo che conosce per cercare tutto ciò è utilizzare un canale erotizzato. Arriva il momento della crisi, F. reagisce come sa, dopo giorni di atteggiamenti trasgressivi esce dalla struttura e ricade se pur in modo episodico nell’uso di sostanze stupefacenti e, dopo poche ore rientra in struttura visibilmente alterato. Quando più tardi chiederò ad F. cosa lo ha fatto ritornare in comunità mi risponderà “ho pensato che qualcuno qui mi avrebbe aspettato ho creduto che vi sareste preoccupati, ho avuto troppa paura di deludervi”. Dunque esiste ormai un legame, non solo con il terapeuta, ma anche con la struttura e ciò che rappresenta e con il gruppo dei pari. La funzione del gruppo come contenitore che accoglie e protegge ha anch’esso certamente giocato un ruolo fondamentale: ha infatti permesso ad F. di interiorizzare una sorta di famiglia buona, di luogo sicuro in cui tornare e verso il quale assumersi delle responsabilità rispetto ai propri agiti, alle proprie azioni. In tutto il lavoro con F. il gruppo ha avuto anche il ruolo importante di evitare una eccessiva dipendenza dal terapeuta. Il gruppo ha inoltre rinforzato in molti momenti il ruolo che F. ha deciso di giocarvi all’interno, assegnandogli un posto preciso, una collocazione stabile e soprattutto per nulla ambigua. Le sedute con F. riprendono dopo un brevissimo periodo di sospensione, si ricomincia da dove si è lasciato. Il racconto della relazione incestuosa con la madre e poi con la sorella che è durata fino a quando F. aveva 16 anni, permette ad F. di ri-narrare la sua storia senza censure, di presentarsi con i suoi bagagli, di trovare uno specchio in cui riflettersi e riconoscersi. Il percorso di F. in comunità sta per terminare. Oggi F. è un punto di riferimento importante per i ragazzi che sono arrivati dopo di lui, è sempre il primo a dare un aiuto a chi vive periodi di crisi, nutre un reale legame verso la struttura che considera la sua casa, verso i ragazzi che chiama “i miei fratellini” e verso gli operatori che a turno giocano il ruolo della mamma, del papà o degli zii, figure parentali oggi finalmente affettive ed accudenti. Il percorso in comunità offre ad F. la possibilità di fare per la prima volta un’esperienza incoraggiante in termini adleriani. F. trova il coraggio insieme al gruppo e alla terapeuta di guardare finalmente le sue profonde ferite, di “narrarle” nel setting accogliente ed incoraggiante, di abbandonare così i suoi vecchi codici e la propria cultura tossicomania che gli hanno fornito un potere perverso, per riprendere di nuovo in mano la sua vita. Oggi, come lui stesso dice, sceglie di vederle, sceglie di prendersene cura anche se sa con certezza che le cicatrici rimarranno. In questo lungo e tormentato viaggio F. ammette di aver tentato spesso in maniera più o meno consapevole di nascondersi o scappare, ma ad un certo punto ha avuto la certezza che qualunque cosa avesse detto o fatto c’era qualcuno disposto non a compatirlo, ma ad aiutarlo e ad accoglierlo sul serio. Il gruppo e lo stesso terapeuta hanno posto delle richieste ad F. che lo hanno fatto sentire uguale agli altri, non così inferiore, non così diverso. Spesso dal canto suo F. ha tentato di impietosire, di sfuggire, di commiserarsi: aver trovato qualcuno che gli faceva delle richieste sane ha voluto significare per F. che qualcuno credeva in lui, nelle sue capacità, nelle sue potenzialità. Raccontare della sua relazione incestuosa dà finalmente la possibilità ad F.di liberarsi da un orribile segreto, di condividerlo con qualcuno, di presentarsi realmente attraverso la sua storia, di poter scrivere sul diario della sua vita pagine nuove. F. comincia ad affacciarsi ora alla vita, quella di “fuori”, quella che è fuori dal “mondo protetto” della comunità; non abbiamo certezze, ma possiamo avere fiducia, è questa ora la richiesta che F. ci fa e che sentiamo di poter e dover accogliere.

 

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