IAIP – Intersoggettività e potere in psicoterapia

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I terapeuti rimangono spesso delusi quando, a distanza di anni, rivedono vecchi pazienti che, alla domanda di esprimere un parere su cosa essi ritengono sia stato loro di maggior beneficio durante il percorso analitico, non ricordano alcuna delle interpretazioni accuratamente costruite per fornire insight, ma hanno ben presente qualche momento di intensa complicità emotiva, di silenzioso contatto mentale, una battuta scherzosa, una risata. Cito ad esempio un mio ex-paziente che a suo dire ricorda poco della sua analisi personale, pur avendo ancora ben scolpito nella mente un mio gesto fatto con la mano sinistra mentre pronunciavo una frase: “Eccolo lì, è lui!”. Quel gesto e quella frase sono penetrate nella sua mente e nel suo cuore e hanno segnato gran parte, a suo dire, del percorso analitico.

Ma cosa significa tutto ciò? Nel corso dei rapporti interpersonali della vita di ogni giorno come anche all’interno del setting terapeutico si crea in maniera automatica, preriflessiva e inconscia una comunicazione intenzionale implicita, uno spazio mentale intersoggettivo noi-centrico condiviso, fatto a volte di una reciprocità, di una vicinanza emotiva fra menti, riparativa e quindi incoraggiante, che non ha bisogno di alcuna interpretazione, in senso classico, di quanto il terapeuta abbia compreso dell’impianto finzionale del paziente. Momenti di questo tipo costituiscono, a mio avviso, un aspetto cruciale che dimostra il “potere” terapeutico della relazione intersoggettiva che, essendo enorme, andrebbe controllato e monitorato costantemente.

Ed è proprio su codesta “forza” curativa, in alcuni casi inconsapevolmente iatrogena, della relazione, proprio sull’enorme “potere” della comunicazione intersoggettiva implicita all’interno del setting adleriano credo sia necessaria una riflessione. Non possiamo sottovalutare a questo proposito la straordinaria lungimiranza di pensiero di Alfred Adler che, capostipite del filone socioculturale della psicologia del profondo, per primo, ha ereticamente e coraggiosamente parlato, prima di Brentano o di Dennett, di consonanza intenzionale, di logica comune, di logica privata, di relazione, di unicità creativa della coppia terapeutica.

II. Alfred Adler, il pioniere

Non possiamo non ricordare che già nel 1908 Alfred Adler, anticipando molti concetti attualmente saccheggiati e riproposti da più parti, considera il concetto di Zärtlichkeitsbedürfnis, ovverosia il bisogno di tenerezza primaria, un precursore del sentimento sociale e di conseguenza dell’empatia: il bisogno (Bedürfnis), provato fin dal primo vagito dal bambino, di ricevere tutto ciò che è condensabile col termine “delicato” (Zärt) e, di conseguenza, affetto, coccole (l’holding e l’handling winnicottiane), se è coltivato con sufficienti attenzioni e scambi di reciprocità da parte del caregiver che si prende cura di lui, consente di vivificare un “legame di attaccamento sicuro”, matrice del linguaggio della tenerezza, della reciprocità.

La psicoterapia per Adler rappresenta un nuovo “legame d’attaccamento” sicuro. Per Adler il terapeuta deve “Comprendere”, cioè “avvicinarsi ai propri simili, identificandosi con loro […]. Comprendere significa formarsi di un uomo o di un avvenimento il concetto che prevediamo se ne formeranno gli altri. […]. [Per il terapeuta …] sarà difficile trovare un ponte per avvicinarsi a quest’anima. […]. Dobbiamo riprodurre in noi stessi il medesimo sentimento, dobbiamo stabilire un contatto con l’altra persona, vedere con i suoi occhi, udire con le sue orecchie e sentire con il suo cuore, dobbiamo identificarci con lui” (2, pp. 35-225).

Lo stesso Alfred Adler inoltre conclude dicendo: “Quando insisto sull’aspetto artistico del nostro lavoro cammino su un vulcano” (Ibid.., p. 225).

Soggettivismo fenomenologico, intenzionalità finalistica, causalità teleologica, empatia, relazione, lavoro artistico: ecco i nuclei concettuali adleriani che hanno sempre rappresentato un forte ostacolo all’ottenimento dell’imprimatur scientifico, in quanto per la scienza sperimentale soltanto le cause efficienti sono appurabili, mentre le ragioni, i fini, la creatività rimarrebbero nella coscienza impalpabile del soggetto.

In realtà, il timore che la psicologia del profondo possa confondersi con metodologie scarsamente scientifiche ha originato, in particolar modo, la tendenza a minimizzare il potere dell'”empatia” come agente terapeutico, in quanto ogni incontro con l’altro da noi è unico e irripetibile, quindi non è né programmabile, né “verificabile”, il che ha portato a sopravvalutare la “nobiltà” del metodo curativo basato sulla logica, sulla razionalità, sulle parole “svuotate” d’emozioni, sull’interpretazione insomma.

Da un lato, troviamo l’approccio chirurgico descritto da Freud, dall’altro il processo d’incoraggiamento empatico adleriano basato sul presupposto che non è possibile imboccare alcuna strategia terapeutica senza un costante flusso biunivoco di risonanze emozionali fra chi cura e chi è curato.

III. Numerose e innovative evidenze empiriche

La contrapposizione netta tra i “due agenti terapeutici”, insight cognitivo-intrepretativo, da un lato, e relazione, dall’altro, si è diluita progressivamente grazie anche alle numerose e innovative evidenze sperimentali sul potere curativo della relazione effettuate negli ultimi decenni nell’ambito delle neuroscienze.

Ma andiamo per ordine. Il modello biopsicosociale della mente ha ricevuto importanti conferme proprio dalle neuroscienze. Non possiamo minimizzare le ricerche empiriche sull’effetto placebo basato sulla somministrazione di una sostanza inerte, che hanno messo in evidenza l’esistenza di una correlazione positiva tra l’esito dei trattamenti (non solo psichiatrici e psicoterapeutici, ma anche medici) e alcune variabili relative all’atteggiamento “caldo” ed empatico del medico nei confronti del curante. Ricordo gli studi di Pancheri e Brugnoli.

D’altra parte, le recenti evidenze oggettive delle neuroscienze confermano che non solo i farmaci, ma anche i comportamenti, le emozioni, la magia empatica della parola e, cosa ancora più importante, le relazioni significative cambiano il cervello, e quindi la mente.
Diretta conseguenza di tale teoria sono gli studi di Kandel che, premio nobel per la medicina e le neuroscienze nel 2000 grazie agli studi effettuati sulla lumaca di mare Aplysia, il mollusco più celebre delle neuroscienze, ha dimostrato come le connessioni sinaptiche possano essere modificate e rinforzate in modo permanente con l’apprendimento dall’ambiente. La psicoterapia in quanto rappresenta un nuovo “legame d’attaccamento sicuro”, un'”esperienza emotiva correttiva” genera una nuova forma d’apprendimento, che può dar vita ad alterazioni dell’espressione genica e di conseguenza delle connessioni sinaptiche alla stessa stregua dei farmaci.

Anche le ricerche condotte proprio in questi ultimi anni dall’équipe di Vittorio Gallese presso il dipartimento di neuroscienze dell’Università di Parma hanno portato alla scoperta di un comune meccanismo neurofisiologico alla base dell’intersoggettività con la sorprendente scoperta di un tipo di neuroni che può fare da tramite tra il Sé e gli Altri e che rappresenterebbe la giustificazione neuronale dell’empatia: i cosiddetti neuroni a specchio (“mirror neurons”).

Questi neuroni, scoperti nella scimmia, hanno una duplice proprietà. Da una parte, si attivano quando la scimmia compie un’azione, ad esempio prende un oggetto; dall’altra si attivano in maniera simile quando la scimmia vede un altro individuo, un’altra scimmia o un uomo, fare la stessa azione. Un’azione fatta da un altro fa “risuonare”, attraverso il meccanismo della “simulazione incarnata”, nell’interno di chi osserva l’azione, i neuroni che si attiverebbero “come se” lui stesso facesse quell’azione. Nell’uomo il sistema “mirror” è stato dimostrato in maniera indiretta, mediante varie tecniche.

Tra noi e gli altri si crea automaticamente e implicitamente un legame, un contatto, uno spazio mentale noi-centrico condiviso: gli altri entrano continuamente in noi con il loro agire e viceversa sia in caso di azioni “fredde”, prive di valenza emotiva, ma anche in caso di azioni emotivamente “calde”, come asserisce anche un nuovo e molto stimolante filone di ricerche molto vicino sul piano epistemologico all’Individualpsicologia, la “Teoria della mente”, che in un’ottica pluridisciplinare e interdisciplinare, attingendo alla Teoria dell’attaccamento di Bowlby coniugata con l’infant research e con le neuroscienze, studia lo sviluppo nel bambino dei precursori dell’intersoggettività comunicativa ossia della capacità di agganciare cognitivamente ed emozionalmente la mente degli altri, attribuendo, a se stessi e agli altri, stati mentali, intenzioni, emozioni, sentimenti, credenze, pensieri, attraverso l’introspezione o l’identificazione empatica, spiegando e prevedendo su questa base l’azione umana.

IV. Intrapsichico e intersoggettivo

Le ricerche segnalate testimoniano in maniera indiscussa un rinnovato clima d’interesse nei confronti della potenziale forza della relazione, della comunicazione intenzionale implicita all’interno del setting, che diventa così il regno dell’implicito, del “non” detto, ma intuito riproponendo conseguentemente il vecchio e delicato problema relativo alla necessità di un costante monitoraggio del transfert e del controtransfert, dell’intersoggettivo e dell’intrapsichico.

Il paziente spesso non riesce a dire quello che sente ma lo comunica in altro modo risvegliando inconsciamente nel terapeuta pensieri, ricordi, immagini, fantasie, persino sogni, oltre che sentimenti. Sappiamo che è importante porre attenzione a tutto quello che il paziente suscita in noi e noi in lui, anche se non ne vediamo immediatamente l’attinenza, perché tutto ciò può essere utile per comprenderlo meglio e in profondità.

V. Responsabilità etica

L’evidenza, in ogni caso, delle effetti della comunicazione intenzionale intersoggettiva implicita, e quindi della psicoterapia, accresce la responsabilità dei comportamenti, delle intenzioni, dei pensieri e delle emozioni del terapeuta. si pongono inquietanti interrogativi sui risvolti etici del comprovato potenziale stra-potere della relazione. La scoperta dei neuroni mirror, infatti, per fare un esempio, implica un modellamento dell’altro in noi e di noi nell’altro sollevando preoccupanti quesiti sulla possibilità/capacità dell’individuo di saper distinguere tra la propria azione/intenzione e l’azione/intenzione altrui, tra sé e altro da sé.

Il terapeuta deve sempre valutare gli esiti impliciti e imprevedibili delle proprie intenzioni inconsce, del proprio agire inconsapevole sull’altro e viceversa da parte del paziente.

Il modello adleriano ritiene che l’incontro analitico non possa essere considerato una semplice esperienza razionale priva di coinvolgimento empatico. Esso costituisce un evento emozionale che coinvolge “due persone” in un itinerario comune che influenza il vissuto sia del terapeuta che del paziente all’interno di uno spazio mentale comune noi-centrico in cui s’intrecciano e si sovrappongono come in un crogiolo alchemico lo stile di vita dell’analista e lo stile di vita del paziente che devono, quindi, necessariamente, conoscere profondamente la propria soggettività per riconoscere conseguentemente quella dell’altro.

VI. Il potere del terapeuta e il potere del paziente

Le relazioni terapeutiche efficaci sono quelle in cui il paziente possa “affidarsi” all’ascolto empatico del proprio terapeuta, nel quale deve esserci la coscienza del proprio sapere-potere, ma anche dei propri limiti di essere umano fallibile, quindi inferiore che deve confrontarsi con un paziente che va riconosciuto come persona che soffre e che chiede aiuto, quindi posto in una posizione di minus, ma capace allo stesso tempo di sapere, di parlare e di potere con autorevolezza, consapevole della propria dignità umana, della responsabilità della propria cura. Adler sottolionea molto bene con una metafora: “Si può condurre un cavallo fino all’acqua, ma non si può costringerlo a bere”. Tutto il resto è soltanto rapporto di potere con la finzione dell’uguaglianza.

Il potere del terapeuta, il potere del paziente, il potere della malattia, il potere della relazione, il potere curativo della comprensione empatica che è sempre intersoggettiva.

Non è possibile ripristinare in chi soffre la capacità di dialogare, di accettare le interpretazioni del terapeuta e di smantellare, quindi, le proprie finzioni rafforzate senza coinvolgimento emozionale e senza inesauribile disponibilità all’ascolto da parte del terapeuta, in quanto occorre calarsi nell’individuo prima che nel paziente che, se avverte nel curante solo la saggezza dello scienziato e solo la routine dell’esperienza diagnostica del professionista, si “spegne” tramutandosi da persona a semplice caso clinico.

L’aspetto centrale del lavoro terapeutico riguarda le due personalità in gioco, ovvero il transfert, il controtransfert e il potere curativo che nasce dalle dinamiche relazionali e lo psicoterapeuta è l’agente che nella relazione può rendere tutto ciò operativo.

Tutte le nostre forze, devono, perciò confluire in direzione di un’etica e di una gentilezza della psichiatria e della psicoterapia che implica per uno psicoterapeuta la capacità di prendere coscienza dell’influenza reciproca e spiraliforme del mondo interno della coppia terapeutica.

VII. Monitorare costantemente l’intrapsichico e l’intersoggettivo: il transfert e il controtransfert

Per questo è indispensabile acquisire la capacità di saper monitorare continuamente l’intrapsichico e l’intersoggettivo attraverso l’autosservazione di sé, dei propri stati d’animo, della propria soggettività, la cui conoscenza ed esperienza è fondamentale per poterli poi riconoscerli nel paziente.

È illusorio credere che un terapeuta possa nascondersi dietro lo scudo difensivo di una scuola e di una dottrina onnipotente, che egli non sia fallibile o esente da errori e da emozioni, errori e emozioni che se individuati attraverso la continua capacità introspettiva possono trasformarsi da ostacolo in risorsa: un controtransfert non chiarito può essere rischioso per il prosieguo del lavoro analitico, che può subire stagnazione con la messa in scena di brandelli non riconosciuti, se non sufficientemente analizzati, della storia personale del terapeuta.

VIII. Conclusioni

In primo luogo, è necessario saper monitorare incessantemente l’intrapsichico e l’intersoggettivo nell’hic et nunc del setting attraverso un controllo clinico diretto delle dinamiche in gioco, e ciò è possibile solo se il terapeuta abbia effettuato un approfondito training personale, un’analisi personale.

Di fondamentale importanza, in secondo luogo, è la possibilità di esercitare un controllo extrasetting attraverso la supervisione.

In terzo luogo, è necessaria una formazione permanente dei terapeuti in genere e una formazione permanente dei formatori, che devono acquisire una costante attitudine a interrogarsi sui risvolti etici del proprio fare ed essere terapeuti, facendo della ricerca e dell’aggiornamento permanente un obiettivo primario.

Un buon terapeuta, come suggeriva Adler, deve essere sempre aperto alla ricerca, al confronto e alla tolleranza, deve studiare sempre altre teorie e altri punti di vista mettendo sempre tutto a confronto. Egli deve, soprattutto, concedendosi l’avventura, a volte “rischiosa”, d’immergersi in un’interazione intersoggettiva duale, che implica un incontro fra menti basato sulla comunicazione intersoggettiva implicita. Soltanto così ci sarà possibile incamminarci su un rinnovato sentiero di professionalizzazione del ruolo terapeutico che conduca verso una valorizzazione della relazione, dell’etica e della creatività.

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